Nudo di donna EGON SCHIELE















giovedì 21 febbraio 2013

I BRUEGHEL, 150 ANNI DI UNA DINASTIA




“L’arte del descrivere della pittura olandese è interamente fondata sulla fiducia, che deriva dalla filosofia di Bacone, “nelle capacità di osservazione dell’occhio.” L’occhio sembra porsi a distanza ravvicinata con gli oggetti, cercarne l’intimità, […] E’ nel cuore del quotidiano che essi lanciano un preciso messaggio di salvezza (laica, non trascendente) […] E la salvezza laica può coincidere con una quotidianità resa eterna.” Svetlana Alpers *

di Antonella Colaninno

Sono già trascorsi tre anni dalla mostra che i Musei San Domenico di Forlì dedicavano ai fiori e ai loro significati declinati tra natura e simbolismo, seguendo “un percorso tra i fiori in pittura, al di fuori dei generi.” Una vasta panoramica sul Seicento focalizzava tra gli altri, un'attenzione particolare sulle tavole fiamminghe e sui Brueghel, su una serie di vasi di fiori dipinti su tavola e su rame e sul piccolo olio su rame dal titolo“Madonna col Bambino e angeli entro una ghirlanda di fiori” (1618-1620 ca. Museo del Prado di Madrid)
dipinto da Jan Brueghel il Vecchio e Giulio Cesare Procaccini che realizzò le figure all’interno della preziosa ghirlanda floreale. 
Dallo scorso dicembre, il Chiostro del Bramante presenta una interessante mostra sulla storia artistica della dinastia dei Brueghel che, per oltre 150 anni, ha dipinto la società e la cultura del secolo d’oro dell’arte fiamminga. Particolare attenzione è data alle storie contadine e al suo mondo popolare e grottesco che alle volte è narrato attraverso una interpretazione bucolica, nonchè alle composizioni floreali così di moda nella cultura figurativa europea. Particolarmente dense di significati simbolici, queste composizioni rappresentano un importante elemento di lettura dello stato sociale e della sensibilità del soggetto a cui fanno riferimento. Una mostra che se pur circoscritta alle “meraviglie dell’arte fiamminga” pone uno spunto di riflessione su una tipologia di pittura che prediligeva le composizioni floreali considerate all’epoca come un genere di minore rilevanza.
Vincenzo Giustiniani, collezionista e committente di Caravaggio, nel 1620, elencò in 12 punti, i diversi modi di dipingere ponendo solo al quinto posto la pittura floreale, quel “saper ritrarre fiori ed altre cose minute” poiché “la pittura doveva educare e raccontare storie edificanti e così dipingere soggetti inanimati non competeva ai grandi maestri.” (Alessandro Morandotti)
Quattro generazioni di artisti, quella dei Brueghel, che con Pieter il Vecchio apre una lunga stagione artistica che si protrarrà per oltre 150 anni. Una visione grottesca e giocosa desunta dall’immaginario di Hieronymus Bosch ritrae la gestualità della cultura contadina nei momenti di festa, sottolineando l’assenza di convenzioni e la presenza di una varietà umana ricca di sfumature.

Un’analisi attenta che non tralascia alcun particolare e che traduce nella vivacità del colore e nella libertà del movimento l’atteggiamento giocoso ed esuberante del mondo rurale. Il genio artistico di Pieter Brueghel il Vecchio continuerà ad esprimersi attraverso il lavoro dei figli Pieter il Giovane (il primogenito) e Jan il Vecchio consentendo alla dinastia di progredire e di intrecciare vicende umane ed esperienza artistica. Pieter porterà avanti e svilupperà le tematiche del padre, mentre Jan introdurrà il tema floreale e la natura morta, aderendo ad un linguaggio più aulico e ad uno stile più raffinato. Saranno ancora i figli di Jan e Pieter a dare lustro alla dinastia di artisti; Jan il Giovane riprenderà le tematiche di suo padre Jan il Vecchio con un ciclo sulle allegorie della pace, della guerra, dell’acqua, dell’amore, dell’olfatto e dell’udito e con le rappresentazioni floreali a cui si intrecciano i lavori di Jan van Kessel il Vecchio, nipote di Jan il Giovane, un elegante studio sugli insetti, sulle farfalle e sulle conchiglie a cui il Chiostro dedica gli spazi dell’ultima sala espositiva. La dinastia si conclude con l’ultimo erede, Abraham che distaccandosi completamente dalla continuità artistica della famiglia, ne decreterà la fine.


Pubblicato da Antonella Colaninno

Mostra visitata il 16 gennaio
   
*Dal saggio di Svetlana Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel seicento olandese [1984], Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 148 tratto da Il corpo e l’anima dei fiori  di Marco A. Mazzocchi saggio in catalogo della mostra Fiori. Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh (Silvana Editoriale).

                                                                                                      
In foto in ordine: Jan van Kessel “Studio di farfalle e altri insetti”, 1657 olio su tavola; Pieter Brueghel il Giovane “Trappola per uccelli”, 1605 olio su tavola; Pieter Brueghel il Giovane "Danza nuziale all'aperto", 1610 ca. olio su tavola; Jan van Kessel "Studio di farfalle e insetti", opera su marmo.


mercoledì 13 febbraio 2013

MARINO MARINI: L’ARCAICO





“Viaggiando per l’Italia, a Roma, a Venezia, a Padova, non mi ero mai impressionato alla vista di monumenti equestri, ma Bamberg, in Germania, mi fece una grande impressione, forse perché nasce in un mondo di fiaba, lontano da noi, in un angolo sperduto…” Marino Marini  

DI ANTONELLA COLANINNO

Se le forme fossero irriducibili al presente, l’Arcaico mondo di Marino Marini (1901-1980) sarebbe la perfetta sintesi di una prospettiva storica che guarda alla classicità come ricerca antropologica. La figura umana attinge da un archetipo primordiale nella sua linearità geometrica e nella sua severa frontalità e, allo stesso tempo, anche nelle morbide volumetrie. Nei cavalli e cavalieri la contemporaneità della linea, così originale ed energica, si ispira al modello classico del Marco Aurelio a cavallo, che si ripropone, idealmente, nella scultura dell’Enrico II di Bamberg. 

Una figura, quella dell'imperatore, che colpì profondamente Marini, per il suo essere decontestualizzata da qualsiasi tempo storico e per questo, sempre di grande attualità. Il passato percorre il presente, nella continua ed inesauribile ricerca, attraverso nuove forme, della sua rivelazione. Nelle sculture di Marino Marini si avverte una tensione latente e, a volte, oscura, che rivela le inquietudini di un artista che ha vissuto le contraddizioni del suo tempo.

Il Museo Archeologico di Bologna ospita sei opere di Marino Marini, in un allestimento che, come una strana caccia al tesoro, invita a ricercare le sculture dell’artista toscano tra i reperti di arte egizia, etrusca e greco romana. Le sculture di Marini trovano la propria collocazione tra le opere della collezione permanente, in un percorso di armonie elettive che esclude ogni nota di dissonanza. Il piccolo Nudo del 1929 si confonde tra le sculture egizie del piano interrato, mentre il ritratto dello scultore Fausto Melotti campeggia al centro della sala che ospita la collezione Etrusco-Italica. Al piano terra, è collocata l’imponente scultura del Cavaliere (1949) e, proseguendo, alla fine della ricca Gipsoteca, la grande figura della Pomona (1945), che, con le sue abbondanti rotondità, ricorda le primitive statue di terracotta propiziatorie di fertilità.  
Pubblicato da Antonella Colaninno

Anche nel 2012, Marino Marini resta lo scultore italiano più quotato in ambito internazionale. 937 mila sterline (1,1 milioni di euro) per un Cavaliere del 1947 acquistato in un’asta londinese di Sotheby’s. Sempre da Sotheby’s a New York Piccolo cavaliere del 1947 è stato aggiudicato a 782 mila dollari (590 mila euro). (Fonte: ArteFiera Bologna)


giovedì 7 febbraio 2013

GLI AFFRESCHI DI SANTA CECILIA A BOLOGNA



di Antonella Colaninno

Passeggiando tra le architetture porticate di Bologna antica, quasi in prossimità di Piazza Giuseppe Verdi con lo storico teatro comunale dedicato al celebre compositore, si trova la chiesa di Santa Cecilia, in quel di via Zamboni che una volta fu via San Donato. Ricostruita nel 1359 dagli eremitani, vicino alla preesistente struttura che con molta probabilità, venne abbattuta, la chiesa è menzionata già in un documento del 1267. Durante il XV secolo, la chiesa subirà una serie di trasformazioni per iniziativa della famiglia Bentivoglio (la più importante delle famiglie bolognesi) che, affermatasi nei primi anni del ‘400, sarà cacciata dalla città nel 1506 da papa Giulio II, anche se il suo declino iniziò a partire già dal 1488 in seguito alla congiura della famiglia Malvezzi. L’ingresso della piccola chiesa si apre  sulle decorazioni pittoriche ad affresco dedicate alla vita di Santa Cecilia (1505 – 1506). Giovanni II Bentivoglio li fece realizzare da Francesco Raibolini detto il Francia, da Lorenzo Costa, da Amico Aspertini e probabilmente, da altri artisti minori, dopo la sua fortuita incolumità durante i terremoti che devastarono Bologna tra il 1504 ed il 1505.  Il ciclo narrativo sulla vita della santa, suddiviso in 5 parti,  è tratto dalla Passio Sancta Ceciliae* e si svolge sulle pareti laterali. Una bellissima sequenza di immagini racconta la storia della giovane santa, vergine e martire, data in sposa contro la sua volontà, al pagano Valeriano. Rivelandogli dopo le nozze del suo voto di castità, Cecilia lo invita a convertirsi e a purificarsi alla fonte così che il suo angelo custode possa proteggerlo. Valeriano decide così, di farsi battezzare da papa Urbano ma, insieme a suo fratello Tiburzio, convertitosi anche lui al cristianesimo, sarà condannato a morte e decapitato “in un luogo a quattro miglia dalla città di Roma, sulla via Appia.” Seguirà la condanna del funzionario romano Massimo che Tiburzio e Valeriano avevano fatto convertire al cristianesimo, e della stessa Cecilia. Ma la giovane uscirà illesa dai liquidi bollenti dove era stata immersa e  sopravviverà anche ai tre tentativi di decapitazione ancora per tre giorni, il tempo necessario per distribuire i beni dei due fratelli ai poveri e la sua casa alla Chiesa e di impedire ad Almachio di impossessarsene. Cecilia avrà sepoltura nei luoghi in cui “si seppellivano i vescovi, i martiri e i confessori della fede Cristiana.”
Il ciclo di affreschi si è preservato nel tempo e nell’ intervento di restauro che ha visto soprattutto un lavoro di ripulitura, si sono purtroppo perduti alcuni elementi della composizione. Di grande eleganza formale e compositiva, l’intero ciclo rappresenta un luogo narrativo in cui l’estetica e il messaggio cristiano danno prova di un’espressione artistica di grande qualità e raffinatezza anche per la presenza di rilievi dorati di alcuni elementi decorativi ad impreziosire la scena. . Il ciclo si apre con l’affresco dello “Sposalizio di Santa Cecilia e San Valeriano” di Francesco Raibolini detto il Francia in cui san Valeriano porge a Cecilia l’anello nuziale. I due gruppi di persone sono incorniciati da una architettura che denota nella parte oscura alla destra di Valeriano, l’ombra del paganesimo. L’ultimo affresco del racconto realizzato sempre dal Francia si pone ad epilogo della vita della santa. “La sepoltura di Santa Cecilia” si caratterizza per la serenità dei volti e la morbidezza delle figure e per una espressività dettata dal trapasso dell’anima di Cecilia nel regno dei cieli.  

Pubblicato da Antonella Colaninno
Luogo visitato il 25 gennaio

* "Passio Sanctae Ceciliae del V secolo divulgata nelle sue linee essenziali tramite la Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (Varagine) del XIII secolo. In seguito la Passio fu edita integralmente  (1840 ca.) insieme ad altre agiografie  desunte da codici manoscritti antichi dall'umanista milanese Bonino Mombrizio."

In foto: scorcio della piazza, con i portici di via Zamboni, l'oratorio di Santa Cecilia e l'adiacente corpo della chiesa di San Giacomo Maggiore; interno della chiesa con l'altare; panoramica di una sezione degli affreschi; lo "Sposalizio di Santa Cecilia e San Valeriano" di Francesco Raibolini detto il Francia; "Martirio di San Valeriano e San Tiburzio" di Amico Aspertini.