“Sono
nato povero e ho dovuto interrompere gli studi a diciotto anni perché le
quaranta lire che costituivano il mio primo guadagno mensile servivano molto in
casa”. Giuseppe Verzocchi, Milano 18 febbraio 1950
di Antonella Colaninno
Ho sempre pensato che l’imprenditore avesse un ruolo
creativo nel suo lavoro, non nel senso comune di creare dal nulla quanto piuttosto, in quello profondo di creare un linguaggio di
segni e di riflessioni . E’ un po’ anche questa, la storia di Giuseppe Verzocchi (Roma, 1887 – Milano,
1970), imprenditore di origini forlivesi e della sua collezione. “[…] è per riconoscenza verso il lavoro che
è sempre stata la mia ragione di vita, che ho invitato alcuni pittori italiani
a trattare questo argomento nel loro linguaggio”. Così scriveva il Verzocchi in una lettera datata Milano,
18 febbraio 1950, per ufficializzare la scelta di coinvolgere le energie
creative dei pittori del suo tempo per realizzare l’ambizioso progetto di una
collezione tematica sul lavoro. La collezione Verzocchi, nata con l’intento di
creare una sinergia tra arte e lavoro, rappresenta un’ importante testimonianza
storica sul tema del lavoro in quel particolare momento storico di ricostruzione
e di rilancio dell’Italia alla fine del secondo conflitto mondiale. “Il tema è, secondo il mio
parere, fra i più elevati. Ho lasciato agli artisti la maggiore libertà di
interpretazione allo scopo di dare di esso una visione quanto più completa
possibile […] ho cercato infine di scegliere fra i pittori alcuni esponenti
delle più varie e anche opposte tendenze affinchè la raccolta, pur nell’unicità
del tema, assumesse carattere panoramico”. “Ho soltanto desiderato che ogni quadro recasse in sé un po’ di me
stesso, sotto forma di quella che considero la mia sigla personale e cioè il
mattone refrattario che io fabbrico”. La collezione, composta di 70 opere e
di materiale cartaceo, si estende per le dieci sale del piano terra di Palazzo
Romagnoli, nella parte più antica della città di Forlì, suddivisa in una
sezione permanente e in un'altra che da spazio, “a rotazione”, a documenti, scritti, autoritratti degli artisti,
schizzi e lettere, a testimonianza dell’intensa corrispondenza che
Verzocchi mantenne con i suoi amici
artisti. E’ proprio grazie a questo materiale cartaceo che riemergono gli umori
e la sensibilità dell’industriale e il
suo impegno nella riflessione su un tema
così importante e attuale come il lavoro. La collezione è incentrata sul ruolo
dell’uomo all’interno di un sistema lavoro che ancora persiste nella tradizione
della manualità artigianale ma che allo
stesso tempo, lo introduce nell’ importante sistema dell’ingranaggio
industriale e del lavoro meccanico dove la creatività individuale lascia il
posto alla forza di reazione della catena di montaggio. Emblematiche sono le
opere di Fortunato Depero e di Emilio Vedova Tornio e telaio e Interno di
fabbrica. La prima insiste sulla distinzione dei sessi sul lavoro, richiamando
il valore della tradizione su cui si
innesta il ruolo sociale e l’identificazione del carattere e dello stile tra lavoro mentale ed estensione dei
sensi. Nella seconda il rigore delle geometrie che si incastrano nello spazio
traducono la forza della macchina e l’emozione dell’artista di fronte ad un
nuovo modo di intendere la produzione che estende le emozioni all’esterno verso
uno spazio non più soggettivo ma oggettivo. La
Fucina di Mattia Moreni espande i volumi su una superficie dominata dal
colore cercando di trovare una forma al rumore delle fabbriche. “[…] ci sono certi bagliori di saldatori
autogeni, di ferro e di acciaio appena fuso, che ha preso quel colore azzurro
iridescente e grigio scuro, un senso di fornace che è tutto rosso dal fuoco;
c’è un senso di fatto tecnico, di grandi martelli e di tensioni, gravità quasi
maestosa e, poi, il rumore. Almeno questo io ho voluto fare: poi il quadro ha
il suo linguaggio forse più preciso di quanto io ho appena indicato”
(Mattia Moreni). C’è poi, chi affida un senso alle forme, un significato
simbolico di quel linguaggio primitivo che ha espresso il lavoro attraverso i
suoi simboli. Simboli del lavoro di
Gino Severini si ispira alla pittura antica che raccontava il lavoro elevando a
simbolo gli elementi che lo rappresentavano. “[…] ho messo un covone di grano, a sinistra un bue. Il colore blu
suggerisce il cielo, il verde deve rammentare il colore dei prati e degli
alberi. […] affinchè le forme non siano fine a se stesse ma significative!.
Afro Basaldella interpreta in maniera comparativa la sua visione del lavoro
intitolandola Tenaglia e camera oscura:
“Dalla tenaglia, macchina semplice,
combinazione di due leve coordinate, […] e dalla camera oscura, strumento di
osservazione sul mondo e principio sul quale si basa l’occhio umano,
intelligenza e regola di ogni percezione
visiva, ho tratto argomento per la mia raffigurazione del lavoro”. C’è chi
come Enrico Prampolini ha pensato al lavoro come azione del tempo sulla forma
geologica e in Il lavoro del tempo
(ritmi geologici), esprime in maniera anti figurativa i cambiamenti della
terra all’azione inesorabile del passare del tempo. Concetto Maugeri lavora sul
tema della memoria e del recupero di quelle strutture distrutte dalla guerra
come i ponti, dipingendo il lavoro delle donne siciliane impegnate nella loro
ricostruzione. Ricostruzione assume
un significato più esteso ed intenso di rinascita e di speranza. Anche La strada nuova di Enzo Morelli unisce
il tema del lavoro alla riflessione intima del ricordo e delle sensazioni: “Percorsi bambino, felice, le bianche
polverose strade di Romagna. Sempre mi è stata amica”. Ogni artista nella
propria memoria, ricorda il lavoro nell’immagine di un mestiere o di un valore
emotivo legato alla dimensione affettiva di un percorso di vita. Mario Mafai
dipinge Gli scaricatori di carbone;
Fausto Pirandello I vangatori;
Domenico Cantatore La cucitrice;
Bruno Saetti La mondina; Bepi
Galletti le Allieve di pittura; e
Mino Maccari la Scuola di pittura. "Mi dipinga quel che vuole – mi disse
generosamente il signor Verzocchi – le sue vasaie o le sue tessitrici…”. Ma
Campigli sapendo di non potersi
sottrarre alla richiesta di inserire un riferimento al mattone pensò
bene di intitolare il suo lavoro L’architrave esprimendo in questa composizione a tre il calore della casa e della famiglia. E
se Campigli immagina una casa in cui sui mattoni predominano gli affetti,
Ottone Rosai immagina una casa nelle sue prime fasi di costruzione. I muratori nel silenzio delle atmosfere
sospese che solo Rosai sa immaginare, cercano con saggezza di porre la prima
pietra del loro prossimo lavoro. La metafisica di Carlo Carrà racconta il
lavoro dei Costruttori puntando
sull’ ”umanità del soggetto”.
Alcuni
di questi artisti hanno pensato di rappresentare il proprio mondo e la leggerezza
dell’ essere artisti. Achille Funi a proposito del suo Scultore, parla del “senso
che è dentro di noi e ci guida” . “La
voce dell’istinto è sovrana e la sapienza è povera: e se l’istinto è cieco,
l’occhio non vede. La macchina umana agisce spinta dal fuoco nascosto in ogni
suo elemento e la natura crea il creabile con l’azione, che è lo spirito del
lavoro”. Anche Mino Maccari racconta della sua Scuola di pittura dove le modelle posano negli atelier d’artista
e dove “[…] non per questo il lavoro che
vi si pratica è meno faticoso […]” solo perché sono gli occhi a guidare la
mano nel disegno. Il lavoro del pittore di Gino Vagnetti è un omaggio al lavoro intellettuale dell’artista. Felice
Carena in Lo scultore rappresenta la creazione “senza enfasi e retorica” perché è così che lavora l’artista “quando cerca di trasformare in poesia la
materia”. Giuseppe Capogrossi cerca di svelare l’essenza stessa del lavoro
nella sintesi compositiva dell’omonimo quadro. Il Carico di fascine di Antonio Donghi nel silente paesaggio del
lago di Piediluco, ricorda la figura di una donna che remando, spinge verso la
costa la sua barca carica di fascine. La donna e il lavoro è un tema su cui
alcuni di questi artisti si sono confrontati. Le donne lavorano nei campi nel
dipinto La vendemmia di Alberto
Salietti, e se Umberto Vittorini in Donna
che lavora ritrae una figura di anziana mentre lavora la lana ai ferri
nell’accogliente dimensione domestica, La
fiorista di Cipriano Efisio Oppo nella sua prorompente bellezza, raccoglie
fiori finti in un fascio al banco di una piccola bottega. Ma ciò che più
ricorre nell’Italia del dopoguerra è la volontà di superare lo stereotipo di
una donna impegnata esclusivamente nei lavori domestici. E così, se da una
parte la donna è ritratta in attività tradizionali legate ad una dimensione
familiare come le Massaie al lavoro di Raffaele De Grada, Le piccole
merlettaie buranelle di Mario Vellani Marchi e la Ricamatrice di Giuseppe Novello, dall’altra, si fa avanti
l’immagine di una donna emancipata che sceglie di posare per il pittore come La
modella di Aldo Salvadori o le Indossatrici di Leonardo Borgese. Infine, in La mondina di Bruno Saetti ricorre il
tema del lavoro nelle risaie ormai entrato nell’immaginario collettivo grazie
al capolavoro cinematografico di Giuseppe De Santis Riso amaro con Silvana
Mangano.
Pubblicato da Antonella Colaninno
Palazzo Romagnoli (1694) prende il nome da Lorenzo
Romagnoli, prefetto di Napoleone che si stabilì nel palazzo nel 1805,
appartenente ad un ramo della nobile famiglia Romagnoli di Cesena. L’immobile
rimase di proprietà della famiglia Reggiani Romagnoli fino al 1965 quando fu
venduto al comune di Forlì che lo concesse all’Amministrazione Militare come
sede del Consiglio di Leva Unificato per Forlì e Ravenna. Ritornato al comune
di Forlì nel 1995, l’immobile, dopo un attento restauro, è stato riportato al
suo splendore per ospitare le collezioni civiche del Novecento. Oltre alla
collezione Verzocchi, il palazzo ospita i Morandi della donazione Righini, tre
piccoli dipinti ad olio su tela e sei acqueforti oltre alla ricostruzione dello
studio morandiano e la “Sala Wildt” con sette sculture dell’artista milanese
donate al comune dal marchese Raniero Paolucci de Calboli. Nei piani superiori
dipinti e sculture della collezione civica chiudono il percorso espositivo.
In foto: copertina
del catalogo della collezione; l’imprenditore Giuseppe Verzocchi; una delle
sale espositive della collezione; la “Sala Wildt”; “L’architrave” di Massimo
Campigli e “Il lavoro” di Mario Sironi; “Costruttori” di Carlo Carrà; una
scultura di Adolfo Wildt “Maschera del dolore” , 1906/1908 (autoritratto) della
donazione de Calboli nella omonima sala.
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