Nudo di donna EGON SCHIELE















mercoledì 28 maggio 2014

PALAZZO ROMAGNOLI E LA COLLEZIONE VERZOCCHI





“Sono nato povero e ho dovuto interrompere gli studi a diciotto anni perché le quaranta lire che costituivano il mio primo guadagno mensile servivano molto in casa”. Giuseppe Verzocchi, Milano 18 febbraio 1950

di Antonella Colaninno

Ho sempre pensato che l’imprenditore avesse un ruolo creativo nel suo lavoro, non nel senso comune di creare dal nulla quanto piuttosto,  in quello profondo di creare un linguaggio di segni e di riflessioni . E’ un po’ anche questa, la storia  di Giuseppe Verzocchi (Roma, 1887 – Milano, 1970),  imprenditore di origini forlivesi e della sua collezione. “[…] è per riconoscenza verso il lavoro che è sempre stata la mia ragione di vita, che ho invitato alcuni pittori italiani a trattare questo argomento nel loro linguaggio”. Così scriveva il  Verzocchi  in una lettera datata Milano, 18 febbraio 1950, per ufficializzare la scelta di coinvolgere le energie creative dei pittori del suo tempo per realizzare l’ambizioso progetto di una collezione tematica sul lavoro. La collezione Verzocchi, nata con l’intento di creare una sinergia tra arte e lavoro, rappresenta un’ importante testimonianza storica sul tema del lavoro in quel particolare momento storico di ricostruzione e di rilancio dell’Italia alla fine del secondo conflitto mondiale. “Il tema è, secondo il mio parere,  fra i più elevati. Ho lasciato agli artisti la maggiore libertà di interpretazione allo scopo di dare di esso una visione quanto più completa possibile […] ho cercato infine di scegliere fra i pittori alcuni esponenti delle più varie e anche opposte tendenze affinchè la raccolta, pur nell’unicità del tema, assumesse carattere panoramico”. “Ho soltanto desiderato che ogni quadro recasse in sé un po’ di me stesso, sotto forma di quella che considero la mia sigla personale e cioè il mattone refrattario che io fabbrico”. La collezione, composta di 70 opere e di materiale cartaceo, si estende per le dieci sale del piano terra di Palazzo Romagnoli, nella parte più antica della città di Forlì, suddivisa in una sezione permanente e in un'altra che da spazio, “a rotazione”, a documenti, scritti, autoritratti degli artisti, schizzi e lettere, a testimonianza dell’intensa corrispondenza che Verzocchi  mantenne con i suoi amici artisti. E’ proprio grazie a questo materiale cartaceo che riemergono gli umori e la sensibilità dell’industriale  e il suo impegno nella riflessione  su un tema così importante e attuale come il lavoro. La collezione è incentrata sul ruolo dell’uomo all’interno di un sistema lavoro che ancora persiste nella tradizione della manualità artigianale  ma che allo stesso tempo, lo introduce nell’ importante sistema dell’ingranaggio industriale e del lavoro meccanico dove la creatività individuale lascia il posto alla forza di reazione della catena di montaggio. Emblematiche sono le opere di Fortunato Depero e di Emilio Vedova Tornio e telaio e Interno di fabbrica. La prima insiste sulla distinzione dei sessi sul lavoro, richiamando il valore della tradizione  su cui si innesta il ruolo sociale e l’identificazione del carattere e dello stile tra lavoro mentale  ed estensione dei sensi. Nella seconda il rigore delle geometrie che si incastrano nello spazio traducono la forza della macchina e l’emozione dell’artista di fronte ad un nuovo modo di intendere la produzione che estende le emozioni all’esterno verso uno spazio non più soggettivo ma oggettivo. La Fucina di Mattia Moreni espande i volumi su una superficie dominata dal colore cercando di trovare una forma al rumore delle fabbriche. “[…] ci sono certi bagliori di saldatori autogeni, di ferro e di acciaio appena fuso, che ha preso quel colore azzurro iridescente e grigio scuro, un senso di fornace che è tutto rosso dal fuoco; c’è un senso di fatto tecnico, di grandi martelli e di tensioni, gravità quasi maestosa e, poi, il rumore. Almeno questo io ho voluto fare: poi il quadro ha il suo linguaggio forse più preciso di quanto io ho appena indicato” (Mattia Moreni). C’è poi, chi affida un senso alle forme, un significato simbolico di quel linguaggio primitivo che ha espresso il lavoro attraverso i suoi simboli. Simboli del lavoro di Gino Severini si ispira alla pittura antica che raccontava il lavoro elevando a simbolo gli elementi che lo rappresentavano. “[…] ho messo un covone di grano, a sinistra un bue. Il colore blu suggerisce il cielo, il verde deve rammentare il colore dei prati e degli alberi. […] affinchè le forme non siano fine a se stesse ma significative!. Afro Basaldella interpreta in maniera comparativa la sua visione del lavoro intitolandola Tenaglia e camera oscura: “Dalla tenaglia, macchina semplice, combinazione di due leve coordinate, […] e dalla camera oscura, strumento di osservazione sul mondo e principio sul quale si basa l’occhio umano, intelligenza e regola di ogni  percezione visiva, ho tratto argomento per la mia raffigurazione del lavoro”. C’è chi come Enrico Prampolini ha pensato al lavoro come azione del tempo sulla forma geologica e in Il lavoro del tempo (ritmi geologici), esprime in maniera anti figurativa i cambiamenti della terra all’azione inesorabile del passare del tempo. Concetto Maugeri lavora sul tema della memoria e del recupero di quelle strutture distrutte dalla guerra come i ponti, dipingendo il lavoro delle donne siciliane impegnate nella loro ricostruzione. Ricostruzione assume un significato più esteso ed intenso di rinascita e di speranza. Anche La strada nuova di Enzo Morelli unisce il tema del lavoro alla riflessione intima del ricordo e delle sensazioni: “Percorsi bambino, felice, le bianche polverose strade di Romagna. Sempre mi è stata amica”. Ogni artista nella propria memoria, ricorda il lavoro nell’immagine di un mestiere o di un valore emotivo legato alla dimensione affettiva di un percorso di vita. Mario Mafai dipinge Gli scaricatori di carbone; Fausto Pirandello I vangatori; Domenico Cantatore La cucitrice; Bruno Saetti La mondina; Bepi Galletti le Allieve di pittura; e Mino Maccari la Scuola di pittura.  "Mi dipinga quel che vuole – mi disse generosamente il signor Verzocchi – le sue vasaie o le sue tessitrici…”. Ma Campigli sapendo di non potersi  sottrarre alla richiesta di inserire un riferimento al mattone pensò bene di intitolare il suo lavoro L’architrave esprimendo in questa composizione a tre il calore della casa e della famiglia. E se Campigli immagina una casa in cui sui mattoni predominano gli affetti, Ottone Rosai immagina una casa nelle sue prime fasi di costruzione. I muratori nel silenzio delle atmosfere sospese che solo Rosai sa immaginare, cercano con saggezza di porre la prima pietra del loro prossimo lavoro. La metafisica di Carlo Carrà racconta il lavoro dei Costruttori puntando sull’ ”umanità del soggetto”. 



Alcuni di questi artisti hanno pensato di rappresentare il proprio mondo e la leggerezza dell’ essere artisti. Achille Funi a proposito del suo Scultore, parla del “senso che è dentro di noi e ci guida” . “La voce dell’istinto è sovrana e la sapienza è povera: e se l’istinto è cieco, l’occhio non vede. La macchina umana agisce spinta dal fuoco nascosto in ogni suo elemento e la natura crea il creabile con l’azione, che è lo spirito del lavoro”. Anche Mino Maccari racconta della sua Scuola di pittura dove le modelle posano negli atelier d’artista e dove “[…] non per questo il lavoro che vi si pratica è meno faticoso […]” solo perché sono gli occhi a guidare la mano nel disegno. Il lavoro del pittore di Gino Vagnetti è un omaggio al lavoro intellettuale dell’artista. Felice Carena in Lo scultore rappresenta la creazione “senza enfasi e retorica” perché è così che lavora l’artista “quando cerca di trasformare in poesia la materia”. Giuseppe Capogrossi cerca di svelare l’essenza stessa del lavoro nella sintesi compositiva dell’omonimo quadro. Il Carico di fascine di Antonio Donghi nel silente paesaggio del lago di Piediluco, ricorda la figura di una donna che remando, spinge verso la costa la sua barca carica di fascine. La donna e il lavoro è un tema su cui alcuni di questi artisti si sono confrontati. Le donne lavorano nei campi nel dipinto La vendemmia di Alberto Salietti, e se Umberto Vittorini in Donna che lavora ritrae una figura di  anziana mentre lavora la lana ai ferri nell’accogliente dimensione domestica, La fiorista di Cipriano Efisio Oppo nella sua prorompente bellezza, raccoglie fiori finti in un fascio al banco di una piccola bottega. Ma ciò che più ricorre nell’Italia del dopoguerra è la volontà di superare lo stereotipo di una donna impegnata esclusivamente nei lavori domestici. E così, se da una parte la donna è ritratta in attività tradizionali legate ad una dimensione familiare come le Massaie al lavoro di Raffaele De Grada, Le piccole merlettaie buranelle di Mario Vellani Marchi e la Ricamatrice di Giuseppe Novello, dall’altra, si fa avanti l’immagine di una donna emancipata che sceglie di posare per il pittore come La modella di Aldo Salvadori o le Indossatrici di Leonardo Borgese. Infine, in La mondina di Bruno Saetti ricorre il tema del lavoro nelle risaie ormai entrato nell’immaginario collettivo grazie al capolavoro cinematografico di Giuseppe De Santis Riso amaro con Silvana Mangano.


Pubblicato da Antonella Colaninno

Palazzo Romagnoli (1694) prende il nome da Lorenzo Romagnoli, prefetto di Napoleone che si stabilì nel palazzo nel 1805, appartenente ad un ramo della nobile famiglia Romagnoli di Cesena. L’immobile rimase di proprietà della famiglia Reggiani Romagnoli fino al 1965 quando fu venduto al comune di Forlì che lo concesse all’Amministrazione Militare come sede del Consiglio di Leva Unificato per Forlì e Ravenna. Ritornato al comune di Forlì nel 1995, l’immobile, dopo un attento restauro, è stato riportato al suo splendore per ospitare le collezioni civiche del Novecento. Oltre alla collezione Verzocchi, il palazzo ospita i Morandi della donazione Righini, tre piccoli dipinti ad olio su tela e sei acqueforti oltre alla ricostruzione dello studio morandiano e la “Sala Wildt” con sette sculture dell’artista milanese donate al comune dal marchese Raniero Paolucci de Calboli. Nei piani superiori dipinti e sculture della collezione civica chiudono il percorso espositivo.


In foto: copertina del catalogo della collezione; l’imprenditore Giuseppe Verzocchi; una delle sale espositive della collezione; la “Sala Wildt”; “L’architrave” di Massimo Campigli e “Il lavoro” di Mario Sironi; “Costruttori” di Carlo Carrà; una scultura di Adolfo Wildt “Maschera del dolore” , 1906/1908 (autoritratto) della donazione de Calboli nella omonima sala.

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