di Antonella
Colaninno
In un breve
saggio sulla fotografia Francesca Alinovi rileva le linee principali del
dibattito sui principi estetici della fotografia italiana negli anni ’30 del
Novecento, sostenendo una continuità con le teorie di Moholy-Nagy e con gli
scritti di Arnheim pubblicati in Italia in quegli anni, ma già noti in Germania
e in Inghilterra. L’Italia, scrive la studiosa, vive un intenso
dibattito culturale e una circolazione di idee su scala
internazionale sostenuti dalla presenza, sul mercato editoriale, di numerose riviste
e da tutta una serie di mostre patrocinate dal regime negli anni tra il
1927 e il 1936. Milano è sulla scena
editoriale con le riviste “Il Progresso
Fotografico” di Rodolfo Namias, e
“Note fotografiche” di Alfredo Ornano, “Galleria” di Luigi Andreis e
il “Corriere Fotografico” di Baravalle, Bologna e Bricarelli sono le
riviste di settore torinesi. La “Rivista
Fotografica Italiana” di E. Jacchia
viene pubblicata a Vicenza, mentre “La
Gazzetta della Fotografia” di Palermo non esclude in questo quadro
territoriale, l’Italia meridionale-insulare dal resto dello Stivale, nonostante
la sua posizione periferica. La riflessione in materia fotografica interessa
principalmente, due aspetti: considerare la fotografia come un’esperienza
puramente tecnica, o piuttosto, pensare che essa abbia esclusivamente, un
valore di immagine. “Gli anni Trenta,
insomma, sono gli anni in cui il modernismo, di derivazione Bauhaus e per
quanto riguarda la fotografia discendente dalla linea Moholy-Nagy-Arnheim, si
incrocia con una sensibilità postmoderna che, in termini più precisi, potrebbe
essere identificata con la poetica del “realismo magico” e con una certa foto artistica che si sviluppa in
quegli anni. Nello stesso periodo, del resto, accanto all’attività dei fotografi
“puri” (i fotografi dei circoli amatoriali) si svolge un interessante lavoro da parte di fotografi-architetti,
designers, grafici pubblicitari, pittori. Ed è soprattutto in questi casi che
la pratica fotografica si sposa con una sensibilità artistica più vasta e
generale”. “[…] la macchina vede più dell’occhio umano e, soprattutto, a
differenza di quello, vede in maniera perfettamente oggettiva”, la foto è “immagine
in sé” è “realtà autonoma e concreta”, questa l’idea espressa da Moholy-Nagy
nell’ottavo volume della serie Bauhausbucher edito nel 1925 e 1927 che con la
sua circolazione, ha permesso la divulgazione del pensiero degli studiosi anche
in Italia. “La logica dell’umano cervello
tradisce la realtà delle cose […]. L’obiettivo invece, ha una sua indiscussa
superiorità: non sa, non pensa, ma vede solo nudamente quello che è” scrive
Pellegrini sul numero 22 della rivista “Cinema” del 25 maggio 1937, un concetto
sostenuto anche da altri autori-fotografi del tempo che ribadiscono il ruolo
della foto anonima, non firmata, separata dalla personalità del suo autore. “Buona parte della foto sperimentale
italiana degli anni Trenta […] risente di questa posizione tecnicista “pura” o
modernista. La sperimentazione, in altre parole, […] viene concepita come
analisi metodologica interna delle possibilità di funzionamento del mezzo
stesso. […] Scopi diversissimi si propone la sperimentazione fotografica del secondo
futurismo (Tato e per certi aspetti Castagneri), e anche quella diretta a fini
pubblicitari, come nel caso di quello straordinario fotografo che è Antonio
Boggeri, con cui si tocca una sensibilità postmoderna”. Tra i nomi dei principali
fotografi della scena italiana nel trentennio, l’Alinovi ricorda quello di Alfredo Ornano, fotografo e scrittore
sulla rivista “Cinema” nonché autore di importanti “trattati manualistici”;
quello di Luigi Veronesi che fa uso
del fotogramma come procedimento tecnico privilegiato perché “gli oggetti […] possiamo vederli al di là
della loro forma reale in immagini che non ci appaiono eppure sono vere”. Il
nome di Franco Grignani è menzionato tra
quelli dei fotografi più vicini al “realismo magico” o “fotometafisica” che cerca
di rilevare quel senso magico che c’è negli
aspetti quotidiani della nostra vita, nelle cose e negli esseri umani. Le sue
composizioni sono l’espressione di una dimensione atipica dove il gioco si
unisce alla poesia. Giuseppe Pagano è
ricordato per la sua abilità di “[…] far
coesistere perfezione tecnica e perfezione di immagine”. Lo stesso Pagano,
in merito alla differenza tra arte e scena, afferma che “I greci non conoscevano questa distinzione di idee tra tecnica e arte:
usavano lo stesso vocabolo per ambedue”. Oltre alla fotografia così
definita “pura”, la fotografia italiana si afferma anche in ambito “documentaristico”
con i reportage di luoghi esotici (Luciano
Morpungo, Federico Patellani, Orio Vergani, Stefano Bricarelli). Per tutti
questi fotografi, il segreto è “nell’istinto
fotografico e nella rapidità, grazie alla quale si può raccogliere la bella
fotografia e quella documentaria”. I fotografi di questi anni non
disdegnano la foto artistica che si afferma all’interno del secondo futurismo,
tra il 1930 e il 1932 e sono attenti alla forma e ai “significati concettuali nuovi indipendentemente dalla purezza tecnica”
(Wulz, Boccardi, Guarnieri, Castagneri, Guglielmo Sansoni alias Tato, Demanins,
Parisio, Farfa). Arturo Ghergo fa dei propri ritratti di donne affascinanti
dell’alta società “l’oggetto del suo
desiderio”, mentre Ghitta Carell nelle
figure austere e velatamente enigmatiche
dei suoi scatti, “elabora splendidi
ritratti congelati di inquiete eroine femminili”.
Infine, Giuseppe Cavalli nelle sue nature morte proietta oggetti di uso
quotidiano sullo sfondo luminoso di campiture indistinte dove trovano un posto
remoto le flebili sagome di oggetti come elementi visivi di una percezione
indefinita dello spazio e della materia.. “[…]
si ha insomma negli anni Trenta
una foto tutta spostata sui valori artistici, o
sugli effetti di immagine o di risultato che, in disprezzo de
llatecnica, fa
volutamente un uso antiquato di lastre, apparecchi, emulsioni, ritocchi e che, anziché
applicarsi alla scoperta delle povere e umili cose, si fa vanto di andare alla
ricerca di soggetti straordinari ed eccezionali (belle donne della nobiltà e
dello spettacolo […]”. L’Alinovi conclude la sua analisi sulla fotografia
degli anni Trenta ricordando le personalità fuori dal coro di Carlo Mollino e Mario Bellavista considerati come “i due teorici più spregiudicati di una nuova sensibilità fotografica,
disancorata da ogni schiavitù”.
Pubblicato
da Antonella Colaninno
In foto: Giuseppe
Pagano, Roma E 42; Arturo Ghergo, Mariella Caracciolo Agnelli; Giuseppe Cavalli,
Master of light; foto di Giuseppe Cavalli; foto di Carlo Mollino.